Glossario
Rigenerazione urbana
Cosa vuol dire “rigenerare” quando si parla di città e di patrimonio architettonico e culturale?
Strausato, addirittura abusato e spesso frainteso questo termine trova anche tra gli addetti ai lavori una non facile definizione e molte sono le interpretazioni che concorrono a definirne il significato. Ci piace definire la rigenerazione urbana come un processo complesso in cui gli ecosistemi urbani vengono ripensati con il coinvolgimento delle comunità locali, le istituzioni, gli stakeholder, promuovendo un miglioramento della qualità della vita e, volendo, dei diritti dei cittadini.
Più banalmente abbiamo sentito usare la parola “rigenerare” a scuola per indicare in biologia la ricostruzione e la riproduzione di parti di un organismo animale o vegetale. E se il termine è associato ad una città ecco che essa stessa diventa organismo vivente. Per questo il termine “rigenerazione urbana” non può essere declinato a qualsiasi progetto di sviluppo urbano e di trasformazione del territorio o di risposta al contenimento di consumo di suolo. Ancor di più se lo si confonde con la riqualificazione e recupero del patrimonio immobiliare in disuso o degli spazi abbandonati di una città.
I sistemi urbani devono essere prima di tutto visti e studiati come sistemi complessi di relazione tra uomo e ambiente, strutture viventi connesse e la cui evoluzione è dinamica e variabile nello spazio e nel tempo. Osservare i luoghi, le pratiche e gli usi ci insegna molto del funzionamento tutt’altro che meccanicistico delle città e ci fa comprendere il significato profondo e molteplice della rigenerazione urbana. Ecco perché esistono diverse definizioni e genericamente quando parliamo di rigenerazione urbana parliamo di processi e di innovazione. Prendiamo spunto dalle scienze evolutive che studiano l’emergere di novità in natura, per cercare di capire come i sistemi urbani sono capaci di autorganizzarsi e di rinnovarsi.
Al centro della parola “rigenerare” ci sono le comunità che attraversano gli spazi, li vivono, li plasmano, e danno a questi forma, valore e significato. Sono esse ad insegnarci e a rendere palesi gli effetti di una città pianificata non solo sulla carta.
Beni comuni
I cittadini possono essere protagonisti attivi nell’immaginare la città?
La progressiva espansione di pratiche spontanee di riappropriazione e cura degli spazi e vuoti urbani da parte dei cittadini, di progetti e azioni “a bassa definizione” ma ad alto contenuto sociale, ci invitano al riconoscimento della dimensione plurale e molteplice della città contemporanea. Nella ricerca e ricostruzione di un benessere urbano è decisivo il coinvolgimento di tutti gli attori dell’ecosistema città, e in particolare dei cittadini che la usano e la vivono. Ma come?
A questa domanda ci viene in aiuto la Costituzione. L’art. 118, ultimo comma, dice che i poteri pubblici devono favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Tra le principali attività che materializzano il concetto astratto di “interesse generale” c’è la cura dei beni comuni. Ma cosa sono i beni comuni? I beni comuni sono quei beni, materiali e immateriali, pubblici e privati, che i cittadini e l’amministrazione riconoscono essere funzionali al benessere della comunità, all’esercizio dei diritti fondamentali della persona e all’interesse delle generazioni future. Le città con i suoi spazi, pubblici o privati, ne è l’espressione più completa e complessa.
A seguito a tale “riconoscimento” i cittadini si “attivano” per garantirne e migliorarne la fruizione individuale e collettiva. Esiste per questo uno strumento chiamato Regolamento dei beni comuni che disciplina la collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione e che si realizza, più concretamente, con la stipula dei patti di collaborazione. La sussidiarietà orizzontale e l’approccio bottom-up sono sempre più necessari per risolvere problemi e governare processi che le amministrazioni pubbliche non riescono più ad affrontare e risolvere da sole. Bisogna cogliere questa sfida che è anche un’opportunità. Lo devono fare i cittadini, e sono molti, che in modo creativo vogliono impegnarsi direttamente e non si accontentano più di delegare. Lo devono fare i politici e gli amministratori che vogliono veramente operare con uno spirito di servizio ed elaborare, insieme ai tecnici e alle nuove professionalità, soluzioni innovative per dare risposte ai problemi della comunità e definire gli scenari possibili che alimentano una molteplicità di interpretazioni di città bella e di qualità.
Il Comune di Colle di Val d’Elsa ha adottato con deliberazione n. 96 in data 23 Novembre 2015 il Regolamento Beni Comuni. Vedi https://www.comune.colle-di-val-d-elsa.si.it/it/page/beni-comuni-36c08d9d-cfe1-4c60-a9c6-b45e422589d0
Vedi anche: “Voci in comune. Le parole chiave dell’amministrazione condivisa” di Labsus
Innovazione sociale
Si può aumentare la capacità di azione della società in cui viviamo?
All’origine dei processi di innovazione esistono pressioni sociali esercitate dall’esistenza di bisogni insoddisfatti (come i servizi sanitari di prossimità), di risorse sprecate (come il consumo di suolo), di emergenze ambientali (come la qualità dell’aria nei centri abitati) o sociali (es. crescenti aree di disagio e marginalità).
Quando né il mercato e né il pubblico sono in grado di rispondere a tali bisogni è necessario mettere in campo nuove risorse e forze attingendole direttamente dal privato sociale, dall’imprenditorialità dal basso e dalle comunità di cittadini che si organizzano, accrescendo le possibilità di azione per la società stessa (empowerment).
Le pratiche di innovazione sociale tendono a collocarsi nel difficile confine tra non-profit/low profit, pubblico/privato, società civile (volontariato, movimenti, azione collettiva, etc..); sono trasversali e frutto di interessanti contaminazioni di valori, aspirazioni e visioni. Nascono da nuove forme di collaborazione e di cooperazione tra soggetti di diversa natura che si ritrovano insieme per perseguire un obiettivo comune.
Dunque l’innovazione sociale ha una spiccata dimensione collettiva, non appartiene solo all’immaginazione e alla creatività di un attore singolo, quanto alla capacità collettiva di partire da un’intuizione e di svilupparla sino a trasformarla in pratica diffusa.
Placemaking/Citymaking
Chi sono i City Makers?
Il placemaking, inteso sia come idea generale che come approccio pratico, ispira le persone a re-immaginare e reinventare collettivamente gli spazi pubblici come il cuore di ogni comunità. Rafforzando la connessione tra le persone e i luoghi che condividono, il placemaking si riferisce a un processo collaborativo tramite il quale possiamo modellare lo spazio pubblico al fine di massimizzare il valore condiviso. Il placemaking va oltre la semplice promozione di una progettazione urbana migliore: facilita modelli creativi di utilizzo, prestando particolare attenzione alle identità fisiche, culturali e sociali che definiscono un luogo e ne sostengono la continua evoluzione.
I Citymaker o placemaker sono coloro che danno avvio al cambiamento nelle loro città, auto organizzandosi, assumendo responsabilità e promuovendo il miglioramento delle condizioni di vita, in poche parole modellando di fatto la città in transizione. Possono essere semplici cittadini, ma anche imprenditori, attivisti, ricercatori, professionisti, operatori culturali e sociali, ognuno con un suo bagaglio di competenze e di pratiche sperimentali che animati da una forte fiducia nell’innovazione rispondono ad un bisogno della comunità con l’azione inventiva e creativa che li contraddistingue, modificando di fatto la vivibilità dei loro quartieri e delle loro città.
Vedi https://www.pps.org/about
Lettura consigliata: Elena Granata, “Placemaker, Gli inventori dei luoghi che abiteremo”, Paesaggi Einaudi, 2021
Uso temporaneo
Cosa sono i meanwhile spaces?
L’uso temporaneo è una pratica che mira a rivitalizzare spazi vuoti, in particolare edifici abbandonati e in degrado. Molti spazi sono lasciati vuoti dai proprietari in assenza di programmi per il loro utilizzo o di capitali per la ristrutturazione o l’ampliamento, oppure per l’impossibilità di venderli o affittarli al prezzo desiderato. Invece di lasciare uno spazio vuoto, i proprietari possono offrire lo spazio in uso temporaneo, in modo da mitigare l’onere connesso alla proprietà. Questo consente a vari membri della comunità di ottenere lo spazio per attività sociali, culturali o di altro tipo, spesso a condizioni più favorevoli.
È una pratica in evoluzione che porta con sé una terminologia ricca, sfaccettata e qualche volta ambigua. Oltre a ‘uso temporaneo’, è ricorrente l’adozione di termini quali ‘uso ad interim’, ‘uso pop-up’, ‘uso/riuso transitorio’ e il più recente ‘uso meanwhile’. Inoltre, lingue e geografie ovviamente contano, con termini come ‘tiers lieux’, ‘broedplaats’, ‘spazi occasionali’ che aggiungono ulteriori sfumature e simbologie.
I meanwhile spaces sono spazi che, nel contesto dei processi di rigenerazione urbana, sono temporanei per un lasso di tempo predefinito e dove gli usi permanenti sono in qualche modo già tracciati nei masterplan e nei documenti di pianificazione.
(fonte https://www.t-factor.eu/futuri-partecipativi-rigenerare-le-citta-con-gli-usi-temporanei/)
Community Hub
Cosa sono i Community Hub?
I Community Hub sono strutture a servizio della comunità; spazi di servizio e produzione, informazione, cocreazione, per la creatività e la coesione sociale. Accompagnano processi, promuovono networking, favoriscono capacitazione, sostengono l’innovazione sociale. Non è facile definirli, perché sono spazi ibridi: possono essere luoghi che orientano alla creazione di impresa, punti di accesso ai servizi di welfare, luoghi di lavoro come coworking e fablab. Fanno inclusione sociale e allevano talenti.
Questi spazi mettono anzitutto al centro la relazione persone-comunità. Qui desideri, bisogni e competenze di ciascuno possono emergere, incontrarsi e aggregarsi, dando vita a nuovi legami e appartenenze sociali a vocazione locale. Attraverso la relazione e il riconoscimento reciproco, si moltiplicano le occasioni di scambio, si intrecciano pratiche di prossimità, si socializzano immaginari di futuro: le persone divengono risorsa per i gruppi e le reti di prossimità e, viceversa, i vicinati e le comunità di affinità diventano palestre di capacitazione per le persone.
(fonte https://www.dynamoscopio.it/portfolio_page/community-hub/)
Vedi anche: Claudio Calvaresi, Community Hub, due o tre cose che so di loro, CheFare, 6 ottobre 2016.
Convenzione di Faro
Cosa sono il patrimonio culturale e le comunità d’eredità?
La Convenzione di Faro promulgata nel 2005 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, nella città di Faro in Portogallo, e recentemente ratificata anche dal nostro paese, ha definito il quadro normativo e d’indirizzo di quella che potremmo definire una “rivoluzione culturale”, ampliando il concetto stesso di “patrimonio culturale” e riconoscendo il ruolo centrale delle comunità nei processi di gestione del patrimonio.
La convenzione di Faro è, nella sua essenza, un invito a superare l’atteggiamento che ci fa pensare al patrimonio come una collezione di opere d’arte, monumenti, reperti storici archeologici che per quanto splendida ed evocativa non è vissuta come parte viva ed integrante della nostra esperienza quotidiana. Per questa ragione la Convenzione introduce il fondamentale concetto di “comunità di eredità” dove tutti siamo tutti chiamati ad essere esperti, custodi e testimoni del nostro patrimonio.
Il patrimonio riguarda il nostro presente e il nostro futuro. È il risultato dell’intelligenza collettiva di tutti noi, è la nostra eredità che lasceremo. Siamo pronti a fare la nostra parte?
Le nuove possibilità offerte dal digitale con la sua immensa capacità di creazione di immagini, testi e suoni arricchirà enormemente il patrimonio del futuro e renderà ancora più necessario che esso sia curato, custodito e trasmesso attraverso le comunità di eredità capaci di creare legami di solidarietà attraverso le generazioni, e di cui siamo tutti chiamati ad esserne parte.
Vedi: Le parole della partecipazione della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali. Il podcast “La Convenzione di Faro” è a cura di Pierluigi Sacco, professore di Politica economica all’Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara.
Sviluppo Sostenibile
Come deve essere una città per essere sostenibile?
Non è sostenibile una città che cresce e si espande utilizzando risorse (materiali ed energia) ad una velocità tale da non permettere la loro naturale rigenerazione (tutte le fonti fossili non sono rinnovabili) o che genera scarti (ad esempio rifiuti ed emissioni) più velocemente di quanto possono essere riassorbiti dai cicli naturali. Sostenibile è sinonimo di durevole. Un sistema urbano che si sviluppa ed evolve dinamicamente, che massimizza l’efficienza, riduce o esclude gli sprechi, attinge da fonti di approvvigionamento rinnovabili attraverso tecnologie innovative, può alimentare una economia prospera e garantire un benessere diffuso nel lungo periodo.
Le Nazioni Unite hanno recentemente indicato i 17 Goal dello Sviluppo Sostenibile nell’ambito dell’Agenda 2030 che estendono il concetto di sostenibilità a molti ambiti e settori integrati tra loro. L’obiettivo condiviso da 193 stati membri rivolto a città e comunità sostenibili implica relazioni con tutti gli altri goal, dalla salute e sicurezza dei cittadini, a diritti umani, benessere, eguaglianza sociale e di genere, conservazione dell’ambiente e della biodiversità, accessibilità a servizi di base, acqua e alimentazione sana, aspirazione a un futuro migliore. Questa declinazione insieme ambientale, sociale ed economica è in linea con quanto affermato dalla commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED) nel 1987: “uno sviluppo è sostenibile quando va incontro ai bisogni delle generazioni presenti senza pregiudicare la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
Carbon Neutrality
Si può realizzare una città neutrale in termini di emissioni di CO2 in atmosfera?
In generale la condizione di Carbon Neutrality si ottiene quando le emissioni di gas serra sono totalmente compensate dagli assorbimenti di CO2 degli ecosistemi naturali. Utilizzando una media delle città europee, è emerso che ogni famiglia europea (media 2,7 persone) produce circa 7 tonnellate di CO2-eq ogni anno, pari alla quantità assorbita in un anno da un bosco grande come un campo di calcio. L’impatto di un quartiere o una città di 10.000 persone corrisponde mediamente ad una superficie di foresta che è dalle 20 alle 40 volte più grande della città stessa.
Attraverso nuove dinamiche sociali, in termini di mobilità, gestione delle risorse e dei rifiuti, diversi sistemi di approvvigionamento idrico e alimentare, incluse diverse abitudini alimentari, nuove tecnologie integrate per la generazione di energia (elettricità e calore) da fonti rinnovabili ed il risparmio ed efficientamento energetico del patrimonio edilizio è possibile ridurre notevolmente le emissioni di gas serra in atmosfera e quindi ridurre l’impatto delle nostre città. A questo punto le emissioni residue minime se saranno completamente compensate dagli assorbimenti di CO2 da pare degli ecosistemi forestali locali potremmo affermare che la città è neutrale. Anche per questo il patrimonio di boschi del nostro territorio è fondamentale.
Forse non tutti sanno che, con il progetto Reges, la Provincia di Siena dal 2008 ha prodotto inventari dei gas serra di area vasta ed ha raggiunto l’ambizioso traguardo nel 2011 (4 anni prima del previsto) della Carbon Neutrality con un abbattimento delle emissioni del 102%. Recentemente è stata fondata l’Alleanza Territoriale per la Carbon Neutrality, per consolidare e migliorare questi risultati e per promuovere azioni sostenibili nel tempo.
Transizione energetica
Cos’è la transizione energetica e qual è il ruolo degli energy citizen?
In linea con gli accordi internazionali per il clima, la strategia energetica nazionale prevede una completa transizione alle energie rinnovabili entro il 2050. Per attuare questa auspicabile prospettiva dovranno essere adottate misure per ridurre la domanda energetica negli edifici, produrre energia da fonti rinnovabili, promuovere una mobilità sostenibile e realizzare produzioni e economie circolari. Le configurazioni di nuovi sistemi integrati, connessi e accessibili, avranno implicazioni su economie locali, dinamiche della mobilità e abitudini dei cittadini, architettura e paesaggio. Gli energy citizen condivideranno risorse e servizi, scambiando energia tra produttori e consumatori attraverso reti smart, e formeranno comunità energeticamente autosufficienti, dinamiche e sostenibili.
Green New Deal
È possibile una società europea climaticamente neutra entro il 2050?
Il Green New Deal è il piano dell’Unione Europea che mette in campo una serie di strategie per far fronte alla crisi climatica e avviare la transizione verso la neutralità climatica entro il 2050 e di trasformare l’UE in una società più sana, sostenibile e prospera. Non solo una serie di direttive e regolamenti europei vincolanti per gli stati membri, ma anche una serie di investimenti per una transizione giusta ed equa. Con questo piano l’Unione Europea intende potenziare il suo ruolo di leader mondiale e rafforzare la sua diplomazia climatica e ambientale, in particolare in vista della COP26 di Glasgow che purtroppo, a causa della pandemia, è stata rinviata nel 2021.
Se le intenzioni politiche sono vere è necessario conseguire azioni concrete e occorre iniziare a immaginare città diverse da quelle attuali, che prevedano nuove dinamiche sociali in termini di mobilità, gestione delle risorse e dei rifiuti, diversi sistemi di approvvigionamento idrico e alimentare, incluse diverse abitudini alimentari e nuove tecnologie integrate per la generazione di energia da fonti rinnovabili.
Basterà? È questa la domanda che molti si pongono e al momento è molto difficile capire quale sarà realmente l’impatto del Green Deal europeo. Importanti saranno gli obiettivi intermedi conseguiti con l’attuazione dell’Agenda 2030.